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‘Sull’ammissibilità in sede di legittimità di una diversa lettura della lettera di licenziamento’

By 2 Aprile 2020



a cura di: Bonaventura Franchino, avvocato in Napoli e Roma e membro del comitato scientifico nazionale della Fondazione School University e Angelo Ruggiero, docente SSM, direttore scientifico della Fondazione School University


La Corte di Cassazione, sez. lavoro, con sentenza n.6438 del 6 marzo 2020 ha fissato il principio in base al quale legittimato ad interpretare la lettera di licenziamento è il giudice del merito; di conseguenza tale risultato diviene insindacabile in sede di legittimità, naturalmente a condizione che sia immune da vizi logici e giuridici.

La vicenda, da cui nasce il provvedimento oggi in commento, prende le mosse da un licenziamento per giustificato motivo oggettivo intimato ad un lavoratore che ricopriva il compito di responsabile di una filiale e nel contempo, operava anche come venditore.
La corte di legittimità, dopo aver ripetuto, le ragioni sottostanti al licenziamento per giustificato motivo oggettivo, passa a riferire che, ai sensi dell’art.5 Legge 604/66, l’onere della prova circa la sussistenza dei presupposti grava sul datore di lavoro.

Più precisamente, afferma la Corte che, il datore di lavoro è gravato dell’onere di provare la reale ed effettiva esistenza delle ragioni poste a fondamento del licenziamento per giustificato motivo oggettivo e, dunque, le ragioni economiche e/o organizzative che hanno determinato lo stesso, nonché il nesso di causalità tra il licenziamento comminato e le ragioni addotte a sua giustifica.
Compreso fra gli obblighi gravanti sul datore di lavoro, vi è la dimostrazione di aver ottemperato all’obbligo del repechage: il datore deve provare puntualmente di aver verificato, all’interno dell’azienda, la materiale impossibilità di ricollocare il licenziando, anche in mansioni inferiori, cercando così di relegare l’ipotesi del licenziamento solo quale estrema ratio.

In tale ipotesi il lavoratore non è onerato di alcun obbligo di allegazione, essendo solo il datore, unico soggetto su cui grava l’onere probatorio, tenuto a dimostrare la inesistenza di posizioni lavorative o di mansioni potenzialmente da ricoprire all’interno dell’azienda; ciò a prescindere se il lavoratore con l’atto di impugnativa abbia o meno dedotto l’esistenza di posizioni lavorative eventualmente da ricoprire.

Nello specifico l’obbligo di repechage impone al datore, oltre a provare che all’atto del licenziamento non esisteva alcuna posizione lavorativa analoga a quella soppressa per l’espletamento di mansioni analoghe, ha l’onere di provare di aver inutilmente prospettato al lavoratore l’impiego in mansioni inferiori ovvero l’assenza di qualsivoglia posizione lavorativa, anche di grado inferiore, in cui poter occupare il lavoratore.

Il provvedimento, oggi in commento, prende le mosse da un giudizio conclusosi, in primo grado con sentenza di rigetto della impugnativa, mentre in appello con sentenza dichiarativa della illegittimità del licenziamento, poiché ritenuti insussistenti i fatti a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo; di conseguenza, dichiarando la cessazione del rapporto di lavoro alla data di licenziamento, condannava la datrice al risarcimento del danno commisurandolo alla stregua di quanto previsto dall’art.18 L.300/70 comma 5.

Più segnatamente, la corte di merito, fondava il suo pronunciamento sulla constatazione che, sebbene accertata la legittimità della soppressione del posto di responsabile di filiale, non era stata soppressa l’attività di vendita, cui anche il lavoratore, alla pari degli altri dipendenti, era occupato.

Difatti, rilevava la illegittimità del licenziamento poiché non risultavano rispettati i criteri di scelta così come fissati dall’art.5 c.1 L.223/91, per non aver valutato che il lavoratore licenziato era in possesso di anzianità lavorativa maggiore di altro lavoratore non raggiunto da licenziamento


La società datrice, ritenendo illegittimo il provvedimento della corte di merito, ricorreva alla Suprema Corte di Cassazione deducendo la violazione e falsa applicazione dell’art 3 L.698/66 per non aver considerato la redistribuzione delle mansioni del ricorrente tra altri dipendenti già assunti.

Su tale capo, la Corte di legittimità si pronunciava dichiarando infondata la doglianza mossa dall’azienda, precisando che, mentre il motivo del licenziamento era fondato unicamente sulla soppressione del posto di lavoro, il lavoratore era adibito in prevalenza a mansioni di addetto alle vendite; di conseguenza, non poteva risultare giustificato, atteso che l’attività di vendita proseguiva in modo invariato: in assenza della soppressione della funzione lavorativa, il licenziamento risultava illegittimo, ragion per cui, il lavoratore andava ricollocato, anche con mansioni inferiori, all’interno della società.

Ancora, veniva dichiarato inammissibile il ricorso nella parte in cui si chiedeva alla corte di “rivalutare” la decisione impugnata, poiché il licenziamento era stato comminato non per il suo ruolo di responsabile di filiale, ma per soppressione dei compiti commerciali svolti dal lavoratore; tale richiesta era fondata su una nuova e diversa lettura data alla lettera di licenziamento, con cui si intendeva procedere al licenziamento del lavoratore nella sua globalità di compiti e delle mansioni che lo caratterizzavano.


In relazione a tale ultimo aspetto la Corte di Cassazione ha ribadito, il principio che simile valutazione non è ammessa in sede di legittimità in tutte le ipotesi in cui il giudizio di merito sia sorretto da motivazione congrua, esente da vizi logici e giuridici.

Del resto anche la giurisprudenza di merito ritiene in modo pacifico che il sindacato sulla legittimità di un licenziamento, intimato per giustificato motivo oggettivo, deve muovere esclusivamente dalle ragioni invocate dal datore, a giustifica del recesso, cui deve essere strettamente limitato.




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