Skip to main content
News

legittimo, per la Corte costituzionale, l’obbligo gravante sulle stazioni appaltanti di motivare le ragioni del mancato ricorso al mercato

By 10 Giugno 2020



Avv. Nicolle Purificati

L’Osservatorio costituzionale è curato per Diritto24 dal Prof. Davide De Lungo e dall’ Avv. Nicolle Purificati




Estremi della pronuncia
: sentenza n. 100/2020
Tipologia di giudizio: giudizio di legittimità costituzionale in via incidentale
Presidente: Cartabia
Redattore: Coraggio
Udienza pubblica: 5/5/2020
Decisione: 5/5/2020
Deposito: 27/5/2020




Oggetto: art. 192, comma 2, del decreto legislativo 18 aprile 2016, n. 50 («Codice dei contratti pubblici») in riferimento all’art. 76 Cost. e in relazione all’art. 1, comma 1, lettere a) ed eee), della legge 28 gennaio 2016, n. 11 («Deleghe al Governo per l’attuazione delle Direttive 2014/23/UE, 2014/24/UE e 2014/25/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 26 febbraio 2014, sull’aggiudicazione dei contratti di concessione, sugli appalti pubblici e sulle procedure d’appalto degli enti erogatori nei settori dell’acqua, dell’energia, dei trasporti e dei servizi postali, nonché per il riordino della disciplina vigente in materia di contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture»).



La questione: Il Tar Liguria dubita della legittimità costituzionale dell’art. 192, comma 2, del d. lgs. n. 50 del 2016, nella parte in cui richiede alle stazioni appaltanti di dare conto, nella motivazione del provvedimento di affidamento in house di contratti aventi ad oggetto servizi disponibili in regime di concorrenza, delle ragioni del mancato ricorso al mercato.
Ricostruito l’ampio dibattito dottrinale e di giurisprudenza relativo all’in house provinding – alla luce del quale l’istituto avrebbe oggi assunto, secondo il rimettente, la veste di ordinaria forma di affidamento di gestione dei servizi pubblici, rimessa ad un giudizio di semplice opportunità della stazione appaltante e tutt’altro che eccezionale e derogatoria rispetto all’affidamento mediante gara – il Tar assume che l’art. 192, comma 2, del Codice dei contratti eccederebbe rispetto ai princìpi e criteri direttivi contenuti nella legge delega n. 11 del 2016, in contrasto con l’art. 76 Cost.
Sarebbe violato, in primo luogo, l’art. 1, comma 1, lettera a), di tale legge, disposizione che reca il c.d. divieto di gold plating (ossia di introduzione o di mantenimento di livelli di regolazione superiori a quelli minimi richiesti dalla Direttiva 2014/24/UE), poiché il legislatore delegato avrebbe posto a carico delle stazioni appaltanti un adempimento ulteriore e più gravoso rispetto a quello strettamente necessario per dare corretta attuazione al diritto europeo, imponendo loro un onere rafforzato di motivazione delle ragioni del mancato ricorso al mercato, non previsto dal legislatore europeo.
L’eccesso di delega rileverebbe anche rispetto ai princìpi e criteri direttivi fissati dall’art. 1, comma 1, lettera eee), del medesimo atto normativo: secondo il giudice rimettente, infatti, tale norma porrebbe a carico delle stazioni appaltanti che facciano ricorso all’in house il rispetto di una serie di obblighi – tra i quali quello di provvedere alla verifica di congruità delle offerte, nonché di assicurare la pubblicità e trasparenza degli affidamenti – ma non l’ulteriore (ed ultroneo) onere di specifica motivazione delle ragioni del mancato ricorso al mercato, indebitamente introdotto dal legislatore delegato.
È intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei Ministri, che ha concluso per il rigetto della questione, rilevando, da un lato, che l’art. 76 Cost. non riduce la funzione del Governo ad una mera scansione linguistica delle previsioni stabilite dal legislatore delegante; dall’altro, che nessun eccesso di delega è configurabile qualora sia rispettata la complessiva ratio della delega stessa e che, ad ogni modo, la violazione del divieto di gold plating non potrebbe comunque venire in rilievo con riferimento all’art. 192, comma 2, del Codice dei contratti, trattandosi di norma che non limita in alcun modo la «necessaria parità concorrenziale» nell’ambito delle procedure di gara, mostrandosi quindi rispettosa dei princìpi e criteri direttivi fissati dalla legge di delegazione.


La decisione della Corte costituzionale: la Corte ha respinto la questione dichiarandone l’infondatezza rispetto ad entrambi i parametri evocati dal giudice a quo, concludendo nel senso che l’espressa previsione di uno specifico onere motivazionale a carico delle stazioni appaltanti – tenute a dare conto, nel caso degli affidamenti in house, delle ragioni che hanno giustificato l’affidamento diretto in luogo del ricorso al mercato – va ricondotto al normale esercizio della discrezionalità spettante al legislatore delegato in sede di attuazione dei criteri di delega, della cui ratio l’art. 192, comma 2, del Codice dei contratti è senz’altro rispettoso.
In questa prospettiva, la sentenza ha anzitutto escluso la violazione del divieto di gold plating – introdotto dalla legge delega per evitare la proliferazione, in sede di recepimento delle “Direttive appalti e concessioni“, di regole aggiuntive non previste dal legislatore europeo – evidenziando, per un verso, come tale divieto non costituisca un principio di diritto comunitario e non vincoli, dunque, gli Stati membri (non essendovi di esso traccia nelle Direttive); per altro verso, che la sua espressa ed autonoma positivizzazione ad opera del legislatore interno è stata finalizzata ad impedire l’introduzione di oneri amministrativi e tecnici ulteriori rispetto a quelli previsti dal diritto europeo, impattanti negativamente sulla concorrenza, in danno delle imprese e dei cittadini.
Il censurato art. 192, comma 2, pertanto, rivolgendosi unicamente all’amministrazione (e non ai privati) e rispondendo agli interessi costituzionalmente rilevanti della trasparenza amministrativa e della tutela della concorrenza, non può ritenersi lesivo del divieto di gold plating, assurto a criterio direttivo nella legge delega.
Neppure ricorre, secondo la Corte, la violazione dell’art. 1, comma 1, lett. eee) di quest’ultima legge, che impone alle stazioni appaltanti puntuali oneri tecnici e amministrativi nel caso di ricorso all’affidamento in house (obbligo di pubblicare tutti gli atti connessi all’affidamento; obbligo di assicurare la valutazione di congruità delle offerte, avuto riguardo all’oggetto e al valore della prestazione, anche nel caso di affidamento diretto).
Questo criterio direttivo, sottolinea la pronuncia, ruota non tanto attorno al generico obbligo di trasparenza e pubblicità, che di per sé permea l’intera azione amministrativa, quanto piuttosto all’esigenza che sia assicurato, in chiave contenitiva, il fenomeno dell’affidamento diretto.
La norma delegata, dunque, opera quale «espressione di una linea restrittiva del ricorso all’affidamento diretto, che è costante nel nostro ordinamento da oltre dieci anni», costituendo «la risposta all’abuso di tale istituto da parte delle amministrazioni nazionali e locali».
Da questo angolo visuale, lo specifico onere motivazionale imposto alle stazioni appaltanti – chiamate a dare conto delle ragioni che le hanno indotte a preferire il ricorso all’affidamento diretto nei confronti di società in house in luogo dell’ordinaria indizione di una procedura ad evidenza pubblica – non incorre nel vizio di eccesso di delega.
La scelta legislativa, proprio perché sorretta da un intento pro concorrenziale più rigoroso rispetto a quanto richiesto dal diritto europeo, non è da questo imposta e dunque non è costituzionalmente obbligata, ma neppure può dirsi in contrasto con le “Direttive appalti e concessioni” che, in quanto dirette a favorire l’assetto concorrenziale del mercato, costituiscono solo un minimo inderogabile per gli Stati membri.

Esito: dichiara infondata la questione.

Principali precedenti e riferimenti giurisprudenziali: (Corte cost., sentenze n. 10 del 2018, n. 59 del 2016, n. 146 e n. 98 del 2015, n. 119 del 2013; n. 325 del 2010; CGUE, ordinanza 6 febbraio 2020, C-89/19 – C-91/19; sentenza 3 ottobre 2019, C-285/18).




Source link