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Per la Cassazione il ‘guadagno’ costituisce elemento materiale del reato di bancarotta fraudolenta post-fallimentare.

By 21 Giugno 2020



a cura degli avv.ti Fabrizio Ventimiglia e Marco Giannone, Studio Legale Ventimiglia

NOTA A MARGINE DELLA SENTENZA Cass. pen. sez. V, 24-01-2020, dep. 21-05-2020, n. 15650

Con la decisione in commento, la quinta sezione penale della Corte di Cassazione, ha affermato che “il reato di bancarotta post-fallimentare si concreta nella distrazione delle somme, pervenute al fallito per l’attività esercitata successivamente alla dichiarazione di fallimento, qualora dette somme superino i limiti determinati dal giudice delegato in relazione a quanto occorre per il mantenimento dell’imprenditore fallito e della famiglia, ai sensi della L. Fall., art. 46, comma 1, n. 2” precisando che “nel fallimento non vanno riversati i ricavi dell’attività esercitata dal fallito dopo il fallimento, ma i guadagni conseguiti, con la conseguenza che, per stabilire se ed in quale misura il fallito abbia sottratto beni alla massa fallimentare, occorre tener conto dei costi incontrati nella gestione dell’attività, dovendosi per l’effetto considerare distratte le somme che rappresentano il guadagno effettivo, eccedente i limiti stabiliti dal giudice delegato”.


Questa in sintesi la vicenda processuale.

La Corte d’Appello di Torino riformava la sentenza emessa nel primo grado di giudizio che condannava un soggetto in relazione ai reati ascrittigli di bancarotta fraudolenta patrimoniale per distrazione e documentale post-fallimentare, nonché di occultamento di documenti tributari da parte di soggetto interdetto dall’attività commerciale pronunciando la prescrizione del reato di cui al D. Lgs. n. 74 del 2000, art. 10, nonché rideterminando la pena principale comminata nel primo grado di giudizio, in anni due, mesi dieci di reclusione, eliminando le pene accessorie di cui all’art. 29 c.p. e quelle di cui al D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 12 e rideterminando, infine, le pene accessorie fallimentari nella durata di anni due, mesi dieci.
Veniva contestato all’imputato, socio accomandatario di una società poi dichiarata fallita, di aver agito, nei confronti dei terzi, anche come amministratore di fatto di un’altra società, distraendo sistematicamente le risorse, occultando documenti e conservando quasi esclusivamente i documenti relativi ai costi aziendali presso la propria abitazione, onde ostacolare la ricostruzione del volume di affari, fatti contestati con l’aggravante di cui alla L. Fall., art. 219, comma 2, n. 2, perchè posti in essere da soggetto destinatario di divieto di esercizio di attività commerciale.
Avverso la decisione della Corte d’Appello ricorreva l’imputato deducendo, tra i vari motivi di ricorso, la nullità della sentenza per vizio di motivazione perché la pronuncia non avrebbe, così come già avvenuto nel primo grado di giudizio, indicato l’effettivo guadagno
conseguito dall’imputato, guadagno che, come noto, costituisce elemento del reato, né avrebbe determinato la somma spettante al fallito ai sensi dell’art. 46 L.F.

La Corte di Cassazione ha dichiarato fondati i due motivi di ricorso offrendo interessanti spunti di riflessione sul reato di bancarotta fraudolenta post-fallimentare e sui presupposti di configurabilità di tale fattispecie.

Ebbene, i Giudici di legittimità ricordano come integri il delitto di bancarotta fraudolenta patrimoniale post-fallimentare la condotta di chi, dopo essere stato dichiarato fallito, intraprenda una nuova attività dalla quale consegua guadagni eccedenti i redditi necessari per il mantenimento proprio e della propria famiglia, omettendo di conferirli a favore della procedura concorsuale in corso, in violazione dell’art. 46 L.F.

È noto infatti, come pure ricordato dai Giudici di legittimità, che non esiste un divieto assoluto per il fallito di lavorare dopo la dichiarazione di fallimento, sussistendo, invece, l’obbligo di non depauperare il patrimonio sociale e di versare parte dei proventi dell’attività lavorativa svolta nella massa attiva fallimentare, trattenendo quanto necessario al mantenimento proprio e della famiglia.

Concludono, infine, i Giudici affermando – anche sulla scorta dell’orientamento consolidato della giurisprudenza di legittimità – che per la configurabilità del reato non sia sufficiente che l’imprenditore fallito utilizzi i proventi derivanti dalla prosecuzione dell’attività senza aver ottenuto una preventiva autorizzazione del Giudice sulle somme che aveva il diritto di trattenere, posto che per l’integrazione del reato in esame è richiesta l’effettiva distrazione delle somme in misura superiore al massimo consentito dalla normativa fallimentare, limite che in assenza di determinazione da parte del GD dovrà essere determinato dal giudice penale che viene, dunque, incidentalmente investito di effettuare la valutazione di cui all’art. 46 L.F.

L’Osservatorio di Diritto Penale, diretto da Fabrizio Ventimiglia, avvocato Penalista e Presidente del Centro Studi Borgogna




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