Skip to main content
Gli approfondimenti dell'Avv. Fabio Benetti

Il reato di diffamazione è in via di estinzione? | Studio Legale Benetti

By 7 Dicembre 2021 Gennaio 21st, 2022



La giurisprudenza si sta dimostrando sempre più tollerante verso quelle espressioni volgari che vengono denunciate come reato di diffamazione. Facciamo il punto.

 

Recita un famoso proverbio: “La lingua ferisce molto più della spada”. Ed è vero: pensiamo a quelle parole capaci di scalfire nel profondo la reputazione di una persona. Quando questo succede, il nostro ordinamento prevede che quella persona possa rifarsi della ferita subita, appellandosi al reato di diffamazione

Eppure, una recente sentenza del Tribunale di Reggio Emilia, pubblicata il 3 settembre 2021, ha sollevato dal reato di diffamazione un dipendente che, parlando con altri dipendenti, ha descritto il proprio datore di lavoro come un ”cogl…one”

 Non si tratta della prima sentenza di questo tipo. La giurisprudenza degli ultimi anni si sta infatti dimostrando sempre più tollerante verso quelle espressioni volgari entrate ormai nell’uso comune della società, ridimensionando notevolmente cosa può essere ritenuto offesa e, quindi, diffamazione. Facciamo il punto insieme.

 

Il reato di diffamazione nell’articolo 595 del codice penale

A definire il reato di diffamazione è l’articolo 595 del codice penale. Il reato si verifica quando un soggetto, comunicando con più persone, offende l’altrui reputazione

In particolare, sono tre i requisiti essenziali per configurare questo tipo di reato: 

  • l’offesa è denigratoria verso la reputazione di una persona
  • la persona offesa non è presente nel momento in cui viene effettuata la dichiarazione offensiva, e quindi non è in grado di percepire fisicamente l’offesa ricevuta; 
  • l’offesa deve essere comunicata ad almeno due persone.

La diffamazione può essere aggravata se il reo accusa la persona offesa di un fatto determinato, o ancora se lo fa a mezzo stampa, su internet o sui social

Già che ci siamo, precisiamo che la “reputazione” va intesa come il credito sociale, la stima e il rispetto che una persona gode all’interno dell’ambiente in cui vive (e lavora). La legge la considera come un vero e proprio diritto soggettivo, per questo chiunque ritiene che la propria reputazione sia stata lesa ingiustamente ha diritto a un risarcimento del danno

 

La parola “cogl…one” e il caso di diffamazione del Tribunale di Reggio Emilia

 Nel caso che abbiamo citato in apertura, il Tribunale era stato chiamato a decidere, in sede civile, se alcune frasi pronunciate da un dipendente parlando con altri colleghi a proposito del loro datore di lavoro fossero da ritenere reato di diffamazione ai sensi dell’art. 595 del codice penale. 

Come abbiamo detto, la frase incriminata riguardava il poco simpatico epiteto con cui il dipendente avrebbe descritto il suo capo: “cogl…one”. Una parola che quasi sicuramente abbiamo usato tutti almeno una volta nella vita; perché no, magari l’abbiamo pensata proprio a proposito del nostro datore di lavoro. Ma un conto è sentirla risuonare nei nostri pensieri, un conto è usarla per apostrofare una persona, peggio se questa persona è assente nella conversazione (consiglio da leggere fra le righe: non fatelo). 

Ora, è certamente vero che l’epiteto “cogl…one” è ormai usato in modo frequentissimo nella nostra società. E infatti questa colorita espressione era già stata oggetto di diverse sentenze, come la n. 34442/17 della Cassazione, secondo cui questa parola non costituisce ingiuria quando sta a significare “inesperto”, “non bravo”. In questo senso, non avrebbe infatti alcun valore dispregiativo, e quindi non costituisce un’offesa.

Anche per il Tribunale di Reggio Emilia questa espressione, seppur volgare, non si traduce in un “oggettivo giudizio di disvalore sulle qualità personali del destinatario, essendo prive di contenuto offensivo nei riguardi dell’altrui onore o decoro in quanto ormai accettate dalla coscienza sociale secondo un criterio di media convenzionale”. 

 

Diffamazione: è davvero solo questione di “uso comune” e “media convenzionale”?

In tutto questo discorso ci stiamo dimenticando di un aspetto molto importante. 

Quando si deve individuare l’eventuale offesa alla reputazione, non è sufficiente limitarsi all’esame della singola parola e del suo disvalore oggettivo. Bisogna infatti valutare le parole pronunciate nel loro insieme. Tant’è vero che, molto spesso, anche frasi che contengono soltanto aggettivi positivi, se pronunciate in modo ironico o iperbolico a scopo offensivo, possono costituire il reato di diffamazione. 

Il Tribunale di Reggio Emilia, invece, si è limitato a prendere atto del fatto che la parola in sé ha ormai un uso frequentissimo e non è più considerata offensiva, senza esaminare il significato complessivo delle frasi in cui era stata pronunciata. 

 

Quale futuro per la diffamazione? E per la nostra società?

Così facendo, si rischia di assecondare eccessivamente l’attuale deriva sociale verso la volgarità. E poi davvero vogliamo permettere che le usanze annullino le leggi, quando questo è espressamente escluso dal nostro ordinamento?

Vale a dire: il “così fan tutti” può bastare per escludere la sussistenza di un reato? Il Giudice in fondo deve applicare la legge e non la morale, e questo accettare in modo acritico e accondiscendente l’evoluzione dei comportamenti sociali può portare a conseguenze davvero nefaste.

I tempi sembrano farsi decisamente duri per le persone che continuano ad avere, al contrario dell’andazzo comune, un elevato senso della reputazione. Queste persone oggi rischiano non solo di essere viste come degli anacronistici permalosi che danno troppo peso alle parole: rischiano soprattutto di non trovare più alcuna tutela dall’ordinamento, in quanto non si comportano secondo l’ID QUOD PLERUMQUE ACCIDIT.

Avv. Fabio Benetti

 

Avv. Fabio Benetti

Laureato in Giurisprudenza nel 1987. Iscritto all’Albo degli Avvocati di Modena dal 1990, Cassazionista. Si occupa prevalentemente di Diritto Privato e Locazioni, Diritto di Famiglia, Successioni, Procedure concorsuali.